Il fascino di una palla che rotola è immenso.
Ognuno di noi tiene ben custoditi ricordi di piacevoli momenti passati a prendere a calci una palla. A dire il vero non sempre di palloni si trattava (almeno nell’idea generale che abbiamo di essi). Uno dei miei primi ricordi è legato alla casa dei nonni: un lungo corridoio ed un quasi-pallone… Fogli di carta arrotolati a prendere le sembianze della tanto desiderata palla. Ogni pezzo di carta era buono per l’occasione: riviste, carta di giornale, carta per alimenti… Tutto ciò che si potesse facilmente arrotolare e bloccare con quintali di nastro adesivo. Poco importa se per avere una palla di circonferenza accettabile avevi disboscato la foresta amazzonica e subìto i rimproveri dei nonni per aver consumato l’intero rotolo del nastro: il divertimento era assicurato. Come se fossimo al Maracanà, tiravamo calci alla malcapitata matassa fino a quando lembi di carta cominciavano a ribellarsi e fuoriuscire dal gomitolo. Allora ecco la soluzione: avvolgere il tutto in un sacchetto di plastica e via con un nuovo rotolo di nastro adesivo! Seguivano ovvi rimproveri dovuti anche al non piacevole strofinio della plastica ad ogni nostro calcio.
La plastica sarebbe stato il prossimo passo.
Quando avevamo in mano cinque mila lire, correvamo a comprare il Super Tele: plastica al minimo sindacale, tanta aria, disegni abbozzati male sulla superficie e colori sgargianti da richiedere l’uso di occhiali da sole. Il Super Tele era un pallone democratico: era adatto a tutte le tasche. In pallone operaio, insomma. Il dramma era che la sua attendibilità era direttamente proporzionale al suo costo.
Giocare al Super Tele non richedeva particolari doti atletiche. Dovevi, invece, avere ottime nozioni sulla direzione dei venti e sul calcolo probabilistico… Quanta probabilità c’era che il pallone finisse lì dove lo volevi spedire? Veramente poche. Il portiere avversario lo sapeva e temeva lo stregato pallone. L’attaccante, scaltro, effettuava il “tiro di punta” imprimendo una traiettoria improbabile degna del miglior Oliver Hutton.
Il passo successivo era il mitico Santos. Più costoso (sette mila lire) e duro del precedente lasciava escoriazioni non indifferenti sul piede se calciato a piedi nudi. Per la prima volta, però, potevamo decidere di mandare il pallone nel posto desiderato senza prima dover scomodare il fato. L’evoluzione successiva fu il Tango che con i suoi colori bianco e nero, era quello che assomigliava maggiormente ad un pallone vero.
Poi diventammo ragazzi. “Notti magiche, inseguendo un gol” risuonava, martellante, nelle nostre teste e, sebbene delusi dall’esito di quel mondiale, ci restò un piacevole ricordo: il pallone di cuoio ufficiale di Italia ’90 della Mondo.
Il passaggio dagli pseudo-palloni al pallone di cuoio è un passo importante. E’ come il primo bacio, non si scorda mai! C’è la curiosità di cosa si proverà… Così comparavamo l’ambita palla (venduta sgonfia dentro una busta di plastica trasparente, altro che quella infantile retina del Super Tele…) e, grazie all’aiuto del gommista sotto casa, la vedevamo trasformarsi nell’amato pallone.
Ammetto di averne sniffato l’odore per parecchi minuti dopo averlo comprato…
Le prime partite “serie” potevano avere inizio.
Come prima cosa bisognava trovare i giocatori. Se si era in numero pari nessun problema, se si era dispari, allora si equilibravano le squadre dando al team con il giocatore in meno, quello più forte.
La composizione delle squadre dava delle certezze. Se nella spartizione dei giocatori tra i capitani non venivi scelto tra i primi significava che:
a) non eri il capitano;
b) non eri parente o amico del capitano;
c) evidentemente servivi per fare numero.
Tra i malcapitati in attesa della convocazione non c’era lui, il prescelto, il privilegiato: il “portatore del pallone”. Lui era quello a cui suonava per primo il campanello di casa. Arrivava con il pallone sotto al braccio con fare fiero e severo. Lui giocava sempre. A prescindere!
Una volta fatte le squadre si delimitava il campo.
Scherzo! L’unica cosa certa erano le quattro pietre che sostituivano i pali della porta il resto era lasciato alla libera interpretazione (di parte…).
Giocare sull’asfalto mi ha insegnato una cosa: non esiste nulla di certo. La larghezza della porta doveva essere di “X” piedi? Ad inizio partita era così salvo poi assistere a portieri maliziosi che spostavano le pietre/pali a loro vantaggio. Ma i dubbi non finivano qui. Un giocatore che segnava con un tiro a mezz’altezza non era certo di esultare… <<ALTO!!!>> gridavano gli avversari inferociti certi che il pallone avesse oltrepassato la traversa immaginaria della porta difesa dal proprio portiere. Ovviamente le dispute c’erano anche sul “fondo campo”: rimessa del portiere o calcio dangolo? E se si trattava di corner, in quale parte della piazza/slargo doveva essere posizionato il pallone? Per fortuna, nel mio caso, c’era un tombino che sembrava essere stato messo lì apposta. Il punto esatto dove battere il corner di destra era l’unica cosa certa di quell’incontro; per il resto la Var sarebbe stata molto utile.
Imparammo anche a simulare. Certe cadute e ruzzoloni che sparivano pochi secondi dopo la concessione della punizione. Più di una volta, però, il sangue bagnava le martoriate ginocchia. Nessun disinfettante però: bastava un pò di saliva (si, fa un po’ schifo, lo ammetto…) e la polvere avrebbe completato il naturale processo di rimarginazione della ferita.
Anche la durata delle partite era variabile: <<chi arriva a dodici, vince>>. A seguire, rivinciata “a sei” ed eventuale “Bella a tre”, Sempre che prima, tua madre, non ti avesse urlato, minacciosa, di rientrare…
Altri tempi. Bei tempi.
Poi siamo cresciuti e ci siamo evoluti, almeno per quanto riguarda le partite a calcetto…
Niente più campi polverosi, niente palloni di cuoio erosi dall’asfalto, niente quindici anni. L’unica cosa in comune, la voglia di tirare calci ad un pallone. Così è nato l’appuntamento del giovedì: calcetto con gli amici.
Si comincia con le convocazioni. Nessun campanello da suaonare alle tre del pomeriggio. Oggi ci sono i gruppi whatsapp! La tecnologia aiuta anche se, puntualmente, appena arrivati al campo ci si accorge di essere in nove o in undici. Cominciamo bene!
Durante le fasi che precedono l’incontro si chiacchiera con gli amici. Argomenti più gettonati? Tasse, lavoro, salute, governo ladro e, saltuariamente, donne.
Finalmente siamo pronti. Le squadre imboccano il tunnel che le porterà al campo. Qui capisci subito dalle maglie che tipologie di giocatori hai davanti: l’inesperto (con la maglietta della salute), l’ambizioso (con la maglietta di una grande squadra con dietro stampato il proprio cognome), ed il vecchio marpione, con un completino logoro di un lontano torneo aziendale.
Comincia il riscaldamento. I temerari non lo fanno. Calciano il pallone con indifferenza senza preoccuparsi di nulla. C’è chi, invece, comincia a zompettare qua e la, senza un senso logico alternando ad un trascinamento di piedi spacciato per corsetta, allungamenti vari improvvisati per l’occorrenza.
La scelta delle squadre è un nostagico ritorno al passato. Non è cambiato nulla rispetto a quando si era ragazzini. L’unica differenza e che qui, il proprietario del pallone, non gioca!
Si comincia!
Tanti anni passati a guardare le partite in TV ti hanno fatto capire che ci vuole un rigore tattico. Se sei attaccante devi attaccare, se sei difensore devi difendere. Punto.
Mica come quando si era ragazzi (e si avevano le forze per farlo), in cui si avanzava tutti alla “viva il parroco”…
Ovviamente il rigore tattico dura i primi dieci minuti. Soprattutto per chi, come il sottoscritto, ha sempre giocato in difesa. Troppa è la voglia di andare a segnare…
Arriva il mio momento.
Palla al piede, sono arrivato indenne a centrocampo. Ho un avversario davanti. Devo scegliere se andare a destra o a sinistra. Anche lui deve prendere una decisone per anticiparmi. Io vado a sinistra, lui si butta a destra. Il fato ha deciso a mio favore ma a me piace pensare che lui abbia abboccato alle mie finte ubriacanti.
Manca solo un difensore… Poi il tiro angolato, infine la gloria.
Studio il mio avversario.
E’ un ragazzotto di circa 16 anni, alto e brufoloso.
Secondo me la sua altezza potrebbe essere un punto debole. La mia agilità avrà la meglio!
<<Ora faccio l’elastico. Una finta e lo frego!>> penso fiducioso.
Ma prima ancora che il cervello mandi l’impulso su come procedere alle mie gambe, il ragazzzotto brufoloso mi ha tolto la palla, ha driblato mezza squadra, ha tirato e fatto gol, esultato sotto la curva e rilasciato le interviste post gara. Ed io che aspetto ancora che il piede recepisca i segnali in arrivo dai piani alti.
Torni in difesa sconsolato. I giusti, coloriti, rimproveri dei tuoi compagni di squadra sono nulla in confronto a quello che ti dice il tuo collega difensore anche lui non ancora maggiorenne: <<LEI stia in difesa>>. Ma dico: viviamo in un mondo in cui i ragazzi non hanno rispetto per le persone più grandi e l’unico educato ce l’ho come compagno di squadra?
Capisci due cose:
- Che l’età avanza;
- Che la prossima settimana (qualora convocato), sarai uno degli ultimi ad essere scelto.
La partita è finità. Ci siamo divertiti.
Poi è importante fare movimento per tenersi in forma.
Chiaramente la birra e la pizza post partita rendono vana quest’ultima considerazione.
Cosa ne pensi?