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Alfredino Rampi, il bimbo caduto nel pozzo.

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Ricorre oggi l’anniversario della morte di Alfredino Rampi, il bimbo caduto nel pozzo.
Trentott’anni fa l’Italia intera stava con il fiato sospeso davanti alla tv a seguire la triste storia di Alfredino, un bimbo romano di sei anni, accidentalmente caduto dentro un pozzo artesiano nei pressi di Vermicino.

Avevo solo cinque anni quando accadde l’incidente ma ho chiari, in mente, quei momenti di angoscia che l’intero Paese provò. Fu un evento tragico, crudo. Ma fu anche, e soprattutto, un evento globale. La televisione, ben diversa da quella che conosciamo oggi, trasmise ogni istante, in diretta, di quell’evento. Oggi la chiamiamo “Tv del dolore”. Siamo abituati, ahimè, a vivere in real time fatti di sangue, morte, distruzione. Ma agli albori degli anni ottanta era tutto diverso…

Nessuno pensava che quella vicenda potesse avere quell’epilogo.

Le prime TV cominciarono ad arrivare. Nel caos del momento e in mancanza di una macchina organizzativa che sapesse gestire l’emergenza, fu totale anarchia. Reporter, fotografi, vicili del fuoco e semplici curiosi potevano accedere al luogo dell’incidente completamente indisturbati. Si poteva arrivare fino all’imboccatura del pozzo senza essere fermati da nessuno.

Una folla sempre più numerosa si radunò attorno a quel maledetto buco. Comparvero i primi venditori ambulanti di bibite…

L’Italia si fermò davanti alla televisione a seguire con apprensione la vicenda.
<<Il bambino è ancora vivo!>>, <<arriverà presto una speciale macchina per scavare un tunnel parallelo…>>, <<la roccia è troppo dura e non può essere perforata…>>,  <<il tunnel è pronto! adesso si procede a scavare una galleria orizzontale per raggiungere il piccolo…>>, <<i volontari scavano a mani nude!>>
Frasi che riecheggiano ancora nella mia mente e che risuonavano nelle case degli italiani alternando momenti di speranza a momenti di grande sconforto.

Al mattino, il primo pensiero era quello di avere notizie da Vermicino. Non c’era nessun Google da interrogare. Bisognava solo da aspettare il TG in attesa di qualche notizia. Il tempo passava e con esso diminuivano le speranze di salvare il povero piccolo.

Speleologi, contorsionisti, ragazzini esili, circensi si proposero per poter scendere giù a salvare Alfredino. Quando anche l’ultimo eroe, quello che tentò invano di imbracarlo, quello che lo accarezzò, risalì a mani vuote dopo essere stato a testa in giù dentro a quel maledetto pozzo per quarantacinque minuti capimmo che l’epilogo era vicino. Lo capì anche la povera madre che, straziata dal dolore, chiese notizie del figlio all’improvvisato soccorritore: <<è ancora vivo signora, ma non so ancora per quanto tempo possa resistere…>> fu la sua cruda risposta.

I rantoli di uno sfortunato bambino di sei anni accovacciato a 60 metri di profondità cessarono il terzo giorno. Una sonda venne mandata dentro il pozzo per cercare di carpire ogni minimo sospiro, ma un gelido silenzio sentenziò la fine di quella giovane vita.

Il circo mediatico finì. I venditori ambulanti andarono via.
Restarono impresse le scene concitate di quei momenti: il dolore di una madre, la confusione attorno al pozzo, l’umanità del Presidente Pertini chino sull’imboccatura di quel tunnel, il coraggio dei soccorritori…

In noi, telespettatori increduli, un senso di impotenza per quello che doveva essere un salvataggio e che invece ci mostrò la parte cruda della vita.

Un dolore, in diretta, in ogni casa.

 

«Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi.»

(Giancarlo Santalmassi durante l’edizione straordinaria del TG2 del 13 giugno 1981.)

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